Mario Carlo Iusi

Mario Carlo Iusi

Interconnessioni

Estratto da un dialogo tra Mario Carlo Iusi e Cristian Moriconi

C.M. Bentrovato Mario, la domanda introduttiva (e apparentemente la più semplice), è perché per la tua serie di opere del 2016 hai scelto il termine Interconnessioni? Rientra nell’orbita della tua poetica del linguaggio e del segno?

 

M.C.I.: Allora, anzitutto mi sembra necessario fare un preambolo per definire un pochino Interconnessioni rispetto quello che è il mio percorso artistico. Immagina che quelle opere sono nate da uno strano verificarsi di eventi: mentre stavo lavorando sul tavolo della cucina di casa di mia madre, utilizzavo delle spatole e dei colori acrilici. Mi accorsi che spostando la bachure sui quattro lati dell’opera questa cambiava di forma perché da una parte c’era della luce e dalla parte opposta c’era dell’ombra e quindi ebbi l’intuizione di costruire una cornice luminosa e dare all’osservatore la stessa opportunità che ebbi io quel giorno. L’interconnessione parte proprio da questa volontà di connettere l’osservatore all’opera d’arte, sicché il fruitore tramite la sua interazione diventa parte integrante dell’opera grazie alla sua volontà di dare forma tramite i quattro interruttori.

 

C.M. Per interconnessione si intende, quindi, il rapporto percettivo che nasce tra l’osservatore e l’opera. Attraverso l’azione della luce – e la sua regia- l’opera subisce delle modifiche, viene inserita in una sorta di metamorfosi continua sfuggendo alla conclusione e alla univocità del significato: in definitiva è come se tu dessi una libertà ulteriore all’osservatore stesso. Un’altra suggestione che ti propongo, per collegarci appunto a questa tematica è la seguente: qual è per te il ruolo della luce nella tua opera? Osservando in profondità, si intuisce che non agisce soltanto da cornice ma in qualche modo rivela proprio la materia all’osservatore, la decifra visivamente. Perciò mettiamo a fuoco la questione della luce “attiva”. 

 

M.C.I. Una delle condizioni necessarie per la fruizione di una mia opera è che non ci sia altra luce nella stanza se non quella dell’opera stessa. È come se l’opera d’arte desse la possibilità all’osservatore di accedere al mondo poiché immagino che il mondo sia spento e si accende solo quando si decide di interagire con l’opera. In questa serie ho trovato il mio tratto distintivo che ho portato avanti modificandolo e modellandolo a seconda delle diverse esigenze teoriche filosofiche e formali. La tua riflessione è giusta perché la luce non serve semplicemente ad incorniciare uno spazio, ma offre la possibilità di vederlo in modo diverso a seconda di come l’osservatore preferisce interagire con l’opera. 

 

C.M. Altro aspetto molto interessante, a mio avviso, è questo rapporto che c’è tra l’artificiale, il materico e l’umano. Perché effettivamente, nelle tue opere, c’è questa gestualità primordiale che in maniera sinergica rendi complementare alla tecnologia, quasi fosse una seconda natura. Per tornare al pensiero umano, e anche per far comprendere meglio ai lettori l’universo dei tuoi riferimenti culturali, parliamo dell’influenza teorica di Wittgenstein nella tua opera. 

 

M.C.I durante un corso di estetica, all’università, lessi con molto attenzione un testo di Wittgenstein del 1938, Lezioni di estetica, e mi soffermai in particolare in una definizione che diede del concetto di bello che mi sembrava affine al lavoro formale che stavo svolgendo. La definizione viene supportata da un semplice esempio: vado dal sarto e gli chiedo di farmi un orlo ai pantaloni, mi fa l’orlo però non mi sta bene, allora il sarto accorcia un pochino di più l’orlo, e io dico “ecco, così va bene!”, a colpo d’occhio definisco ciò che penso mi piaccia. Questa è una definizione soggettiva di qualcosa che vuoi vedere in quel momento, così nelle opere della serie Interconnessioni l’osservatore ha sempre l’opportunità di definire personalmente ciò che vuole guardare elevando la sua volontà di voler vedere quell’opera in quel momento in quel modo lì e non assolutamente in un altro. 

 

C.M. Praticamente sulla base di questo ragionamento estetico si va a scardinare una visione della bellezza statica, che procede secondo dei canoni e un codice matematico di rapporti armonici, come per buona parte della storia dell’arte occidentale. È interessante che Wittgenstein ne faccia proprio una questione estemporanea, mentre nell’immaginario collettivo si è abituati a vedere la bellezza come qualcosa di eterno, dalla tradizione greca per arrivare al Rinascimento e alle riprese del Neoclassicismo. Per concludere questa parentesi su Wittgenstein, volevo chiederti cosa ne pensi di questa sua frase molto significativa, contenuta nel Tractatus logico-philosophicus del 1921: “l’immagine è un modello della realtà”. Mi domandavo se attraverso le tue Interconnessioni provi a registrare la realtà per poi astrarla simbolicamente, oppure ne fai uno strumento di analisi -permettimi la metafora- microbiologica. 

 

M.C.I. Allora, lungi dalle questioni filosofiche di cui non ci occuperemo in questo posto, io penso che una delle necessità per il quale un artista è un artista è quello proprio di cercare di estrapolare. Estrapolare dalla realtà per restituire nelle opere ma allo stesso tempo produrre delle opere perché immersi nella realtà. Facendone ovviamente parte, in modo liquido, appartieni anche ad una società che devi cercare di decostruire tramite un linguaggio specifico che ho cercato di costruire in questi anni. È un discorso che io ho fatto in entrambe le direzioni: faccio parte della realtà e quindi realizzo opere d’arte, ma allo stesso tempo cerco di trarre dalla realtà per dire altro tramite le opere.

 

C.M. È un’operazione linguistica, dialogica e decostruttiva, non solo fai l’esperienza della realtà che ti circonda ma cerchi anche di tradurla all’osservatore mediandola attraverso l’immagine. 

 

M.C.I L’osservatore, in alcuni contesti, necessita di essere guidato. É necessario che dia, ti primo acchito, un’interpretazione soggettiva dell’opera, ma penso sia necessario anche capire per quale motivo l’artista abbia realizzato l’opera, per quale fine. Nella serie Interconnessioni tutta la parte pittorica, quella che è oltre l’organizzazione luminosa delle cornici, delle connessioni dell’osservatore all’opera, si trovava in una fase embrionale del mio percorso. Nonostante opere come Interconnessioni numero 6 siano molto vicine alla serie “Dei vortici e dei punti” sviluppate due anni dopo.  Interconnessioni numero 2 ha un forte richiamo all’espressionismo astratto, che io in quegli anni non conoscevo affatto. Oltre l’anacronismo, il fatto di poter illuminare un’opera con una tecnica pittorica rinomata e riconducibile a Pollock a colpo d’occhio, offre di certo all’osservatore una chiave di riflessioni su tematiche artistiche passate che possono essere attualizzate tramite l’azione del fruitore.


C.M. Nel tuo linguaggio vengono fuori tanti riferimenti storico artistici, per dare degli elementi ai lettori: dall’Espressionismo astratto all’arte concettuale e gli studi linguistici di Joseph Beuys, fino agli ambienti pioneristici di Lucio Fontana, dello Studio Azzurro, e di Marinella Pirelli. Ne emerge una sintesi personale, autonoma, e questo effetto dell’immagine arriva con prepotenza all’osservatore. Chiunque guarda coglie subito il significato primario, questa tua attenzione verso l’osservatore e la sua percezione si concretizza con una evidenza cromatica e formale, non è soltanto un’idea teorica. Il “potere dell’immagine”, per parafrasare in conclusione David Freedberg, è presente ed ha una sua forza comunicativa dinamica.